N. 4 – 2005 – Tradizione Romana
I gosos
di San Costantino
Sommario: 1. Il
nome, i nomi. – 2. L'origine. – 3. Poesia
popolare o colta. – 4. Le raccolte. –
5. I gosos
di S. Costantino. – Bibliografia
essenziale.
Con la parola gosos si suole indicare nel sardo
logudorese
quella particolare composizione poetica religiosa extraliturgica, che si
canta
dopo le novene e le messe nelle feste popolari in lode della Trinità,
del
Redentore, della Vergine, dei Santi.
La parola muta nelle varie sub regioni dell'Isola e diventa gòggius
o gòccius nei Campidani, nella Marmilla e nel Sarcidano, gozos
nel Barigadu e nel Mandrolisai, gròbbes in alcuni centri del
Nuorese.
Quest'ultima voce però si usa anche per le composizioni poetiche non
religiose
di una determinata forma.
Qualsiasi nome si adoperi, la struttura formale di tali canti è
sempre la stessa, e anche la melodia è sostanzialmente uguale in tutta
Talvolta, al posto dei nomi sopra ricordati, troviamo quello di
laudes,
e alcuni autori sotto la voce gosos riportano composizioni
poetiche
religiose di vari metri e strutture creando qualche confusione. Così
hanno
fatto recentemente R. Turtas e G. Zichi nel volume Gosos, poesia
religiosa
popolare della Sardegna centro-settentrionale (Sassari, 2001).
Il vocabolo gosos, come pure goccius, deriva dal
latino gaudium, probabilmente attraverso il castigliano gozo,
che
ha il duplice significato di gaudio e di lode dei Santi. La
lingua logudorese conserva entrambi i significati, ma con la
particolarità che assegna il primo al singolare gosu e il secondo
al
plurale gosos. La parola gròbbes deriverebbe invece dal
castigliano cloba, che significa strofa, mentre goggius e goccius,
secondo altri, avrebbero l'origine nel catalano goigs.
Sorgono ora due questioni: la prima riguarda l'origine della
struttura formale e della melodia dei gosos e la seconda la loro
classificazione.
Per quanto riguarda la prima questione, avendo già accertato
che
il nome dei sopra indicati canti deriva dalle lingue castigliana e
catalana, ci
chiediamo se anche la loro struttura formale e la melodia siano da
attribuire
nell'origine alle regioni iberiche. In verità la forma strofica con
ritornello
è presente sia nei gosos o goccius che nei gozo e goigs
iberici, ma le differenze tra le composizioni sono notevoli. Quelle
castigliane
sono infatti costituite da quartine di ottonari, quelle catalane
stampate in
Catalogna nella prima metà del Seicento, presentano ottave, mentre i gosos
sardi
sono composti da sestine di ottonari, e soltanto in apertura hanno una
quartina
di ottonari, il cui secondo distico si aggiunge a modo di ritornerlo al
termine
di ogni strofa.
Si potrebbe anche pensare ad una dipendenza dei gosos
dalle laudi che hanno avuto origine nell'Italia centrale dalla
spiritualità francescana medievale e furono diffuse nelle regioni
dell'Occidente dagli stessi Francescani e poi dalle Confraternite, che
ne
fecero il loro canto processionale, ma anche in questo caso le
differenze tra
le due composizioni sono tanto grandi da scoraggiare ogni collegamento
Oggi si propende a credere che la forma e la melodia dei gosos
siano di matrice locale, la quale potrebbe radicarsi in substrati
melodici
mediterranei antichissimi. In assenza di qualsiasi documentazione, si è
portati
a valutare la persistenza nei secoli di tante forme poetiche e
melodiche,
specialmente di quelle religiose. In Sardegna sono presenti melodie che
hanno
riscontro in paesi molto lontani, come nei Paesi Baschi e in certe valle
delle
montagne dell'India,. E tutto ciò è dimostrato dai documentari
televisivi di
Folco Quilici.
Se mi è lecito parlare di qualche esperienza della mia
adolescenza, ricordo di aver sentito cantare spesso nella mia parrocchia
da un
sacerdote anziano
Per quanto riguarda i gosos, Giovanni Dore afferma di
aver
sentito in una trasmissione radiofonica registrata nel Monte Athos, una
melodia
che gli è sembrata identica a quella dei nostri gosos.
Ciò porterebbe a credere che essi derivino dall'innografia
bizantina, che sorse nei secoli V-VI nella Siria, in seguito alle
conversioni
in massa al cristianesimo, per adattare la vecchia liturgia alle nuove
esigenze. Più tardi tale innografia ebbe il suo centro a Costantinopoli,
dove
si sviluppò in particolare il kontakion o contacio, la cui
paternità è
attribuita a Romano il Melode. Questi, originario di Emesa in Siria e
vissuto a
Costantinopoli nella prima metà del secolo VI, ne avrebbe composti oltre
mille,
in gran parte perduti.
Il kontakion è una composizione poetica per le feste
religiose ed è costituita da un numero variabile di brevi monostrofe,
dette tropari,
in genere da
L'innodia siriaca venne diffusa dai monaci bizantini in tutto
il
mondo cristiano ed esercitò il suo influsso anche sul canto latino
liturgico
con l'apporto di nuovi moduli melodici strofici e di repertori poetici
extra-biblici. Nei secoli VI-VII essa giunse anche nell'Isola con i
monaci
"basiliani", la cui presenza aumentò specialmente al tempo della
persecuzione iconoclasta. Essi introdussero il culto dei loro santi e
naturalmente le pratiche del culto, le cerimonie relative e gli inni,
come il kontakion.
Alcune delle usanze da loro introdotte si conservano ancora.
Comune ai Sardi
è, ad esempio, il culto greco-bizantino della Madonna dormiente, detta Koimesis,
cioè la venerazione il 15 agosto della Madonna Assunta raffigurata in un
bellissimo letto. Le pratiche dei monaci legate strettamente ai culti,
si
radicarono nella gente, tanto che essacol tempo le considerò proprie.
Abbiamo
testimonianza che l'innografia greca giunse nell'Isola in vari
periodi,
anche nei momenti più difficili, quando cioè gli Arabi avevano
conquistato il
mare. In un racconto che ci è stato lasciato dal monaco Michele dello
Studio di
Costantinopoli nella seconda metà del secolo IX, leggiamo che alcuni
monaci
eretici giunti da Siracusa a Cagliari riuscirono a convincere
l'arcivescovo di
quella città a non eseguire quell'anno il canto del Pentekostarion scritto
da
Teodoro Studita e abitualmente eseguito dopo Pasqua sino alla domenica
successiva alla Pentecoste. Una volta conosciuto l'errore, l'arcivescovo
scacciò quei monaci eretici e riprese a cantare gli inni composti a
Costantinopoli. Di quei secoli lontani non ci resta comunque alcun
documento,
per cui dobbiamo cercar di intuire come andarono le cose. I primi
documenti
scritti che riportano dei gosos simili nella forma agli attuali,
risalgono ai
primi decenni del secolo XVI.
Non possiamo ricercare le melodie di quei secoli lontani perché
nei tempi antichi e nell'alto medioevo nessuna melodia veniva scritta,
ma era
affidata alla ricostruzione mnemonica del cantore. Ciò era conforme alla
concezione della musica come accessorio dell'inno sacro, priva di valore
autonomo. Tuttavia, poiché la melodia dei gosos è sostanzialmente
uguale
in tutte le regioni dell'Isola, possiamo ritenere che essa abbia avuto
un'unica
fonte molto autorevole, che potrebbe essere proprio l'innografia greca
importata dai monaci orientali; si potrebbe anche ipotizzare che kontakion
e
gosos abbiano avuto entrambi la loro origine dalle antiche
melodie
mediterranee.
La seconda questione riguarda la classificazione dei gosos,
se cioè essi devono essere considerati canti popolari oppure poesia
dotta. Si
tratta di un concetto colto, di vertici, che ha fatto scrivere fiume di
inchiostro tra Ottocento e Novecento.
Prima di addentrarmi nella questione, credo che sia
indispensabili distinguere i testi dei gosos dalla loro melodia.
Su
quest'ultima infatti non ci sono dubbi, perché ha chiari i caratteri del
canto
popolare: è monodica, facile, ritmica, e il rapporto tra testo e
melodia
è strettamente sillabico. Essa lascia trasparire un istintivo senso
della
tonalità unito a un progressivo distacco da quelle ecclesiastiche. Di
solito il
solista canta le strofe che sono composte da tre distici, ripetendo per
tre
volte la prima parte della melodia della quartina iniziale, mentre il
popolo
esegue come ritornello dopo ogni strofa la seconda parte della stessa
quartina.
Ciò avviene specialmente quando si tratta di gosos di molte
strofe, come
quelli di S. Costantino, che ne ha venticinque, oltre la quartina di
apertura,
e non è facile ricordare i testi di tutte.
Per quanto riguarda i testi, ancora oggi si pubblicano raccolte
di gosos con la indicazione di “poesia religiosa popolare”.
L'ultimo
esempio e il volume di Turtas-Zichi sopra ricordato.
Giovanni Spano è stato il primo a inserire dei gosos tra
le canzoni popolari e ciò fece con la raccolta in sei volumi intitolata Canzoni
popolari
inedite in dialetto sardo centrale ossia logudorese ( Cagliari
1865).
Su quest'opera dello Spano e in particolare sull'attribuzione
di
“poesia popolare” alle canzoni da lui pubblicate, si aprì una lunga
discussione, ed esposero dei rilievi critici Augusto Boullier, Giuseppe
Pitrè
che ebbe una corrispondenza con lo Spano, Francesco Mango, Pier Enea
Guarnerio,
Vittorio Cian, Egidio Bellorini, Raffa Garzia, Emanuele Scano e altri.
In modo
rapido e riassuntivo vi prese parte anche Leopold Wagner all'inizio del
Novecento.
Francesco Mango intervenne operando una giusta distinzione tra
laudi o inni semiculti dallo schema metrico fisso, e componimenti a
schema
metrico vario, e considerò questi ultimi il «vero tipo del canto sacro
popolare». Fece però l'errore di chiamare goccius i secondi,
mentre tale
denominazione corrisponde a quelli del primo tipo (Cirese p. 78). E.
Scano
invece affermò che i goccius, sebbene diffusissimi, non
costituiscono un
vero «canto sacro popolare», né sono cantati in casa, per cui essi
sarebbero da
considerarsi "componimenti esclusivamente letterari", per lo più
dettati da parroci e da frati.
La discussione verté poi sul significato da dare all'aggettivo popolare.
Augusto Boullier ritiene popolare quella poesia che è espressione e
insieme
documento dell'anima del popolo. Scrivendo della poesia popolare isolana
in
genere egli dice: «E' una poesia profondamente nazionale; non ha subito
l'influenza spagnola, come si potrebbe credere... è unicamente
l'immagine della
vita sarda». Parlando poi dei canti religiosi, egli mette a confronto la
semplicità di questi con i caratteri dell'arte figurativa ufficiale in
Sardegna, tutta di influenza straniera e di eleganza austera nelle
manifestazioni prerinascimentali, e di pretenziosa grandiosità gesuitica
e
spagnolesca nelle successive. Quindi aggiunge: «Niente di tutto questo
nei
canti religiosi: né quella grazia austera, né questi agghindamenti, ma
semplicità quasi sempre, che qualche volta riesce ad essere grande
..sempre
essi sono la schietta espressione dei sentimenti, delle idee del
carattere
popolare» (Ibidem, pp. 29-30). Anche il Boullier però riconobbe che non
tutti i
canti sardi sono ugualmente popolari. «Io ricercai di preferenza -
disse- quelli
che sono sbocciati dall'anima del popolo, quelli che non essendo stati
scritti
subito, essendosi conservati per tradizione, essendo stati nel tempo
rimaneggiati senza posa, non appartengono più né a un autore conosciuto,
né a
un tempo determinato» (pp. 185-186).
Il lavoro di Boullier venne giudicato in modo negativo da G.
Pitrè e tale giudizio fu seguito, dopo una iniziale incertezza, anche da
Raffa
Garzia, I. Galli identificò la popolarità con la dialettalità
linguistica.
Alessandro D'Ancona poi osservò che in Sardegna, «sonosi tra loro
confuse la
poesia popolare e la poesia dialettale», e aggiunse che «chi di poesie
popolari
fa dimanda, rimane stupito nel vedersi additare componimenti che altrove
verrebbero classificati tra i saggi di poesia aulica».
Secondo il Pitrè l'autentico canto popolare ha le seguenti
caratteristiche: è monostrofico, quindi breve, anonimo, metricalmente
uniforme,
stilisticamente semplice, sintetico nel contenuto, rielaborato
collettivamente
dal popolo. E il Pitrè precisa meglio: sono popolari i «componimenti con
lampi
di ispirazione, vivacità di immagini, forza di affetto e bagliore di
frasi.
Ogni verso è una proposizione, ma una proposizione che compendia in sé
tanto
che in mano di letterati non cape talvolta in tutta una ottava».
Continua
quindi affermando che settantacinque sopra cento canzoni sarde hanno il
loro
autore in improvvisatori e poeti di riflessione di questo o dell'altro
secolo,
e che nelle pubblicazioni dello Spano, come pure in altre antologie,
come le Raccolte
tempiesi o del Pagella, non «vedesi, generalmente parlando, il canto
popolare».
Concludendo questo punto mi sembra di poter affermare che i gosos
non possono essere considerati poesia popolare in senso stretto, perché
non
sono frutto immediato, spontaneo, istintivo dell'animo del popolo. Essi
sono
invece frutto di studio, di riflessione. Lo stesso Giovanni Spano diceva
che
essi sono opera di poeti semidotti. Appartengono quindi alla
poesia
colta. Essi però diventano popolari, quando si diffondono e si radicano
nell'anima della gente tanto che il popolo li considera come espressione
della
propria vita. Pur non avendo un'origine popolare, diventano tali col
tempo per
l'uso che la gente ne fa. Aggiungeva giustamente Giovanni Spano, che
all'inizio
forse non fu ben compreso: «Vi sono dei miseri contadini e giornalieri
che per
ore continue vi recitano tante diverse canzoni... I giovinotti vanno da
lui, e
le apprendono a memoria, e così si rendono affatto popolari. Lo stesso
posso
dire delle canzoni sacre , che sono affetti a Dio, alla Vergine, ai
Santi , o
precetti morali per ben vivere. I poeti semidotti le compongono per uso
del
popolo, e questo ce le conservò: ma di queste pure ce ne sono molte di
analfabeti. Il cieco Murenu, il Cano, il Serra, il Cesaracciu, il
Tanchis, il
Cherchi e varii altri rozzi improvvisatori dettavano lodi ai Santi ,
dopo che
ne sentivano la vita dal prete, o componimenti morali , dopo che
sentivano una
predica o un catechismo in Chiesa. Che questi canti siano popolari basta
portarsi alle feste nelle Chiese campestri a cui prendono parte donne e
ragazzi, basta avvicinarsi alle case per sentirle modulare dalle donne e
nei
loro lavori domestici»(G. SPANO, Appendice I, pp. 4-5).
Passando ora ad un altro punto della conversazione, presento
una
sintesi delle raccolte principali di Gosos che il tempo ci ha
conservato
e trasmesso.
I primi florilegi di poesia religiosa in logudorese ci sono
pervenuti, secondo Giancarlo Zichi , attraverso codici cinquecenteschi e
secenteschi appartenenti alle confraternite della Santa Croce di Nule,
Borutta,
Nuoro, Bonnanaro, Torralba, Bottidda o alla parrocchia di Torralba e
alle
confraternite del Rosario e dello Spirito Santo di San Vero Milis. La
maggior
parte di tali codici derivano dall'Officium Disciplinatorum
Santissimae
Crucis, juxta eiusdem Sanctae Crucis Sasaritanam Confraternitatem,
che
venne trascritto in Banari da Martinus de Marongiu per conto di Iohanne
Falche
rettore de la villa de Borutta-Acabado nel 1592. Il documento venne
pubblicato da Damiano Filia nel Laudario lirico quattrocentista e la
vita
religiosa dei Disciplinati Bianchi di Sassari (Sassari 1935), ed è
conservato nell'Archivio Storico Diocesano di Sassari. Detto Laudario,
che
riporta come già detto alcune parti del Codice di Borutta
derivato
anch'esso dall'Officium Disciplinatorum sopra ricordato, contiene
le Laudes
a sa Rejna de sa Rosa, che sono considerate il testo di gosos
più
antico tra quelli oggi conosciuti. La sua struttura formale è un
poco
diversa da quella oggi considerata classica: ha infatti la quartina
iniziale di
ottonari, ma le sette strofe sono formate da otto ottonari.
Il termine gosos è attestato finora, secondo R. Turtas,
al
1640 (Gosos, 2001, p. 11), mentre i gozos de la Conception, di
cui non
conosciamo l'articolazione, venivano eseguiti in canto ad Oristano
almeno
dal 1609 (G. Mele, 1989, p.26).
Del secolo XVII è il Codice di Bonnanaro scritto ad Ossi dal
sacerdote Giovanni Antonio Manos per incarico di Pietro Basteliga,
curato del
paese. La data del 26 maggio 1619 indica l'ultimazione della
trascrizione.
Alcuni gosos sono stati trascritti sul retro del
frontespizio di un registro dei battesimi di Torralba dal sacerdote
Giovanni
Casu nel periodo in cui era curato in quella parrocchia, cioè tra il
1614 e il
1630. Si tratta in particolare delle laudi in onore del martire S.
Sebastiano,
Del secolo XVIII sono i manoscritti conservati nell'archivio
parrocchiale di S. Vero Milis e nella Biblioteca Satta di Nuoro. Furono
scritti
da Maurizio Carrus nel 1726-1727 e nel 1731 e appartenevano alle locali
confraternite dello Spirito Santo e del Rosario. I gosos del primo
manoscritto,
53 in sardo e 8 in castigliano, sono trascritti secondo il calendario
liturgico
a partire dal primo gennaio. Il secondo manoscritto presenta 5 gosos
in
campidanese e 4 in castigliano.
Molti manoscritti sono conservati in altre parrocchie
dell'Isola,
e ricordo i Gosos de la Virgen de la Piedad compuestos per
Jaime
Zonquello Espada de Sedilo el ano 1734, che si cantano per le
celebrazione
in suffragio delle anime del Purgatorio.
Nel 1736 il sacerdote Giovanni Delogu Ibba pubblicò a Villanova
Monteleone un volume di circa 400 pagine, diviso in sette parti, col
titolo Index
libri vitae, cui titulus est Jesus Nazarenus rex Judeorum. Per
questo
studio interessa soprattutto la sesta parte che comprende 72 gosos,
di
cui 58 in logudorese e 14 in castigliano, che seguono l'anno liturgico
iniziando da Novenmbre.
Del 1760 sono i Gosos e Cantigos sacros di Bonaventura
Licheri; del 1770 l'Officiu comuni della cappella della S. Croce
di
Narbolia, nel quale sono inseriti i Gosos de su Rosariu; del 1779
i Goccius
de su minimu maximu Santu Franciscu de Paula, pubblicati a Cagliari.
Nel
1787 venne pubblicata a Cagliari dall'abate Matteo Madau un'altra
raccolta di
poesie dal titolo Le Armonie dei Sardi, nella cui seconda parte
sono
inserite alcune Laudi composte dallo stesso Madau.
Del 1800 sono i Cantigos sacros po usu de su populu scritti
da Giovanni Battista Madeddu di Ardauli, che fu parroco di
Tadasuni e in
seguito beneficato del duomo di Cagliari. Altre Laudes e inni in
Logudorese e
Campidanese il Madeddu scrisse negli anni seguenti, e nel mio archivio
ho in
copia un suo manoscritto che riporta testi dal 1800 al 1806.
Nel 1833 venne pubblicata a Cagliari, probabilmente da Giuseppe
Pasella un'antologia di Canti popolari della Sardegna, con testi
di
Gerolamo Araolla, Matteo Madau, Gavino Pes, Gian Pietro Cubeddu, Efisio
Pointor
Sirigu, Salvatore Sanna.
Nel 1854 l'abate Tommaso Pischedda pubblicò a Sassari una
raccolta dal titolo Canti popolari dei classici poeti sardi, con
testi
degli autori sopra nominati e inoltre di Pietro Spanu e di Pietro
Pisurzi.
Nel 1859 apparve anonima a Sassari una raccolta intitolata
Canzoni popolari, ossia Raccolta di poesie tempiesi con testi del
Pes, del
Sanna e di altri.
Del 1860 è la raccolta manoscritta di Goccius di don
Peppino Porqueddu e del 1862 sono le Nuove rime sacre in dialetto
tempiese
ad onore e gloria della Santissima Vergine di Luogo Santo, scritte
da
Giorgio Sechi di Tempio.
Nel 1863 Salvatore Cossu rettore di Ploaghe pubblicò a Sassari
la
raccolta di Bainzu Cossiga intitolata Su poeta christianu o siat Sa
dottrinetta in sonettos logudoresos cun alcunas cantoneddas sacras e
lo
stesso Cossu nel 1888 sempre a Sassari pubblico i Cantigos sacros pro
usu de
su populu isseltos dae su sac. Sebastianu Patta rettore parrocchiale dei
Ardaule.
Tra il 1863 e il 1872 il canonico Giovanni Spano pubblicò i
suoi sei
volumi delle Canzoni popolari inedite già ricordati, che sono
state
recentemente ripubblicate da S. Tola.
Nel 1891 uscì a Torino per l'editore Loescher il volume Canti
popolari
in dialetto logudorese raccolti per cura di Giuseppe Ferraro e
divisi per tipologia, e nel 1898 P. Nurra pubblicò a Cagliari l'Antologia
dialettale
dei classici poeti sardi.
La Tipografia Vacca Mameli di Lanusei pubblicò nel 1889 le Lodi
sacre
in onore della SS. Trinità, nel 1903 le Lodi in onore della
Beata
Vergine e nel 1904 le Lodi in onore dei Santi. Nel 1890
Cosimo Manca
rettore di Ardauli scrisse i Gosos in onore de S. Imbenia.
Nel 1934 apparve ad Oristano l'importante raccolta di Goccius
logudoresi
e campidanesi di Giovanni Sechi. Nel 1969 R. Calvisi pubblicò a Cagliari
Nuovi
racconti e canti popolari del Nuorese, nel 1978 uscì ad Ozieri Cantones
regoltas
e pubblicadas da Barore e Giommaria Casu.
Nel 1980 Iosto Murgia pubblicò a Sanluri i Goccius de Santa
Maria e l'anno seguente Clemente Caria diede alla luce ad Oristano
il
volume Canto sacro.popolare in Sardegna. Nel 1981 uscirono a
Cagliari
Tutti li canzoni di Don Baignu (Gavino Pes). Del 1986 sono usciti a
Nuoro i
tre volumi di Giovanni Dore Gosos e Ternuras. Nel 1988 a cura di
G.
Cossu e F. Fresi apparve a Cagliari I poeti popolari di Gallura. Da
Petr'Alluttu a Ghjaseppadi Scanu, Curruleddu,Cuccheddu, Preti
Mical'Andria
Nel 1994 A. Nughes pubblicò ad Alghero alcuni gosos della
Madonna
di Valverde nel volume Valverde raccontata nei secoli, e nel 1999
Bruno
Pittau pubblicò a Serramanna una raccolta di preghiere in campidanese
intitolata Nannai nostus resanta aici...Arregorta de pregadorias
antigas. Ultima
nel tempo la raccolta di R. Turtas e G. Zichi pubblicata a Sassari nel
2001 e
intitolata Gosos. Poesia religiosa popolare della Sardegna
centro-settentrrionale.
Altri gosos sono contenuti nelle raccolte de I grandi
poeti in lingua sarda e dedicate a 'Padre Luca' Cubeddu, a Pietro
Pisurzi e
a Melchiorre Murenu.
I gosos, come canti di una liturgia popolare, furono
sempre considerati dall'autorità ecclesiastico con benevolenza. Dalla
rassegna
sopra presentata risulta anzi che gli autori furono molto spesso
sacerdoti o
religiosi. I vescovi in genere diedero ad essi l'approvazione
ecclesiastica
anche scritta, come ad esempio, fece Eugenio Canu per quelli di Sedilo
in onore
di S. Costantino. Quando nel 1924 si tenne a S. Giusta il Concilio
Plenario
Sardo, i vescovi condannarono e proibirono le cantilene religiose
diffuse nel
popolo, ma non condannarono i gosos: ordinarono soltanto che non
venissero eseguiti durante le celebrazioni liturgiche, ma al termine di
esse.
I Gosos di S. Costantino oggi cantati dal popolo nei
giorni della festa e della novena, sono stati composti dal sacerdote
Bachisio
Michele Carboni, il quale nacque a Sedilo nel 1823 e fu parroco di Soddì
e Zuri
dal 1862 al 1910, anno della sua morte. Egli scrisse anche la Novena
di
Santu Costantino Magnu Imperadore, che ogni anno si recita nel
santuario di
Sedilo dal 22 al 31 agosto. Per questi suoi due lavori ottenne
l'approvazione
ecclesiastica da Eugenio Canu, vescovo di Bosa dal 1873 al giorno 11
febbraio
1905.
In tempi anteriori si recitava un'altra novena, che non è stata
conservata, ma della quale si ha notizia dai registri
dell'amministrazione del
santuario degli anni 1667 e 1669. Sono poi conservati in un archivio
privato
alcuni resti di gosos attribuibili al Settecento. Si può
ipotizzare che
di questi ultimi sia stato autore il sedilese sopra ricordato Jaime
Zonquelo
Espada, che nel 1734 compose le Laudi delle Anime, intitolate Gosos
de
la Virgen de la Piedad, il cui manoscritto è conservato nella
parrocchia a
Sedilo.
I gosos attuali sono conformi nella lingua e nella
struttura allo schema classico dei gosos logudoresi: la quartina
iniziale di ottonari divisa in due distici, è seguita da 25 sestine di
ottonari, e ciascuna di queste è legata alla successiva dal secondo
distico
della quartina iniziale che viene cantato dal popolo a modo di
ritornello. La
quartina si ripete poi intera al termine delle strofe.
Anche la lingua è quella logudorese, ma con alcuni vocaboli e
forme verbali della parlata sedilese. Quando gli stessi gosos,
dopo il
1920, furono diffusi a stampa a Pozzomaggiore dove si costruiva una
nuova
chiesa del Santo, le espressioni proprie di Sedilo vennero sostitute con
quelle
del Meilogu. Presento alcuni esempi di tale trasformazione, indicando in
tondo
il vocabolo originario di Sedilo e in corsivo, tra parentesi, la
modifica
apportata a Pozzomaggiore: naschesis (naschistis), cheriat
(cherfesit),
fagheis (faghisti), narande (nerzende), ais (hazis),
onoradu (ondradu).
Nell'edizione di Pozzomaggiore fu conservata in calce anche
l'approvazione del vescovo di Bosa Eugenio Cano, benché quel centro
appartenesse ad altra diocesi.
Venendo ora all'analisi della laude in onore di S. Costantino,
rilevo subito che i dati biografici del Santo sono scarsissimi. Tra i
personaggi della sua vita vengono nominati soltanto, e per una sola
volta, la
madre Elena e l'avversario Massenzio. L'autore, che aveva già ampiamente
illustrato la vita del Santo nella Novena, non volle ripetersi e
rivolse
il suo interesse a scrivere un inno su due soli temi: la libertà della
Chiesa e
la gloria della Santa Croce.
I gosos sono una preghiera di lode e di invocazione, e
per
tutto il loro svolgimento i fedeli si rivolgono al Santo usando soltanto
il
plurale. L'uso del "voi" era generale in tutta l'Isola nelle famiglie
e nelle relazioni con persone autorevoli o anziane fino agli ultimi
decenni del
secolo ventesimo.
La laude è preceduta da una quartina introduttiva che raffigura
il Santo glorioso in cielo e termina con l'invocazione: Siate nostro
avvocato presso Dio.
Le prime tre strofe si sviluppano parlando della nobiltà delle
sue origine, che consiste nell'essere egli nato da una santa, Elena, e
ricordano: «Dio stesso vi ha reso potente per far conoscere al mondo
la
Croce e dare gloria al Redentore».
Quindi viene trattato il tema della libertà religiosa concessa
da
Costantino alla comunità cristiana: «Dio vi ha posto a difesa della
Chiesa
quando la persecuzione era più cruda e la spada pagana penetrava più
acuta
nelle vene cristiane. Il tiranno voleva distruggere la Chiesa, ma voi
avete
difeso la fede ancora prima di essere cristiano. Che cosa farete per
essa una
volta diventato cristiano?
Armato dal Cielo di santo zelo, avete lottato contro le forze
infernali, avete concesso la libertà ai cristiani, avete spento
l'incendio
causato dall'eresia ariana e avete costruito numerose chiese in onore di
Dio, su
Monarca Maggiore. Il silenzio non cadrà mai su tali meriti straordinari e
giustamente la terra vi invoca, o Costantino, come Santo, perché con le
vostre
opere avete meritato di sedere in Cielo con Cristo Redentore».
Il tema della Santa Croce viene trattato dalla strofa 14° alla
21° e si sviluppa sempre col discorso diretto al plurale. «Gesù
ha
redento il mondo con la croce e alla croce, un tempo strumento di morte,
voi,
Costantino avete dato "supremo onore". Della croce siete diventato il
secondo restauratore e l'avete scelta come stendardo imperiale: per
grazia
celeste essa è stata posta nelle vostre mani. A nessun altro prima era
stata
concessa come scettro, mentre a voi, Costantino, è stata data con le
parole:
Con questo segnò vincerai.
La croce vi ha dato vittoria su Massenzio e ora la tenete in
mano
come simbolo di gloria. Un tempo causa di terrore, la croce è oggi posta
sulla
vostra corona imperiale e sugli stendardi di ogni nazione. Per volontà
divina,
entrambi avete avuto gloria: Costantino dalla Croce e la Croce da
Costantino, e
per aver seguito la sua via, o Costantino, oggi siete santo in Cielo. Il
vostro
zelo ha innalzato la Croce sulla terra e la Croce è diventata per voi
scala
fino al cielo: il vostro corpo mortale si è trasformato in splendore
passando
dalla corte imperiale a quella celeste. Avete onorato la croce ed essa
ha
mutato il vostro destino, trasferendovi dall'impero terreno alla corte
celeste.
Felice la morte che apre le porte della vita eterna!».
Le ultime quattro sestine sono un'invocazione al Santo: «dal
vostro seggio in Cielo voi, o Costantino, vedete le tante nostre
necessità e
angustie e siete difesa da ogni male. Poiché Dio vi ha accolto tra i
santi e vi
onora col concedervi tante grazie in questo celebre tempio, il vostro
popolo
devoto vi invoca con grande fervore. Dal cielo volgete lo sguardo ai
numerosi
devoti che, facendovi promesse e voti, vi chiedono di essere esauditi.
Concedeteci che nel giudizio finale non ci colpisca l'ira divina. Voi
siete il
nostro protettore in questo mondo di orrori, e perciò vi domandiamo la
grazia
che il Redentore ci conceda il riposo eterno».
I gosos terminano con l'invocazione della buona morte,
che
viene ripetuta per ben due volte di seguito. Essendo questa l'unica
grazia che viene
richiesta in modo esplicito, possiamo cogliere il fine didattico
complessivo
che si era prefisso l'autore. Egli voleva educare i devoti del Santo a
valutare
come necessaria e preminente la salvezza spirituale che Cristo ci ha
meritato
con la sua Croce. Dalla croce Costantino ha ottenuto la gloria del
Cielo, da
Cristo redentore ogni fedele otterrà misericordia nel giudizio finale e
la pace
eterna.
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